Non c'è miglior ospedale della propria casa

Che sia una slavata minestra al sapore di dado o una fettina di prosciutto plastificato, che sia un hamburgher dal sapore di sterco di gorilla o del riso impaccato che ti rimane incastrato nell'esofago, se li mangiassi a casa tua, avrebbero un sapore diverso rispetto  a qua, in ospedale. Sarebbero buonissimi. Mettici anche due grissini secchi e striminziti, l'acqua frizzante sgasata e riscaldata e del purè in busta addensato dalla fecola, io, a casa, trovo siano fenomenali.
D'accordo che non per tutti le quattro mura possono apparire dolci e zuccherate ma le mie, ve lo assicuro, sono sempre state la mia pillola curativa. E' come se la mia casa sapesse di burro e cioccolato, e creasse una strana dipendenza dall'effetto ipnotico, sorprendentemente ormonale.
Quelle quattro mura sono il posto migliore che ci sia sulla faccia della terra. Mi sento vivo, parte del mondo. Mi sento come in una catena di montaggio della vita. Quella che costruisco io. Shakerata.
In ospedale, invece, tutto sembra sospeso, perfino il tempo. E tutto sembra pesante, come una somma infinita di compromessi.
Quarantasette giorni di reclusione in una stanza di pochi metri quadri, mi sembrano un'eternità. I minuti appaiono lunghi come delle ore e le ore, giorni. Ormai detesto ogni cosa. Il cigolio degli zoccoli gommati trascinati dalle infermiere, e quello dei carrelli della terapia, il viavai dei medici due volte al giorno, il parentado curioso. Perfino il verde colore delicato e tenue dei muri, ora mi appare di uno sbiadito pastello annacquato. Il letto mi sembra più scomodo di una settimana fa e la luce troppo forte dalla finestra.
Il tempo, prezioso e fruttifero, diventa qui un nemico inesauribile. Non passa mai. La frenesia di casa lascia in ospedale, lo spazio a giornate tutte uguali. Per fortuna che i farmaci mi aiutano a non sentire nulla. C'è quello per i dolori allo stomaco, e quello per il mal di pancia. Ho la pomata per le emorroidi, lo sciroppo per la nausea, la flebo di sali , le gocce per la tristezza. Non manca niente. Nemmeno la pastiglietta per dormire. Ogni tanto qualche infermiera passa a controllare il catetere, qualche altra i drenaggi. Altre volte vengono solo ad aiutarmi a sedere in poltrona. Mi sistemano i capelli, mi aiutano a sfilare la maglietta. Mi lavano. Stamattina mi hanno cambiato il sacchettino sulla pancia e quelli ai fianchi. Poi una ha detto che respiravo male e mi ha messo anche l'ossigeno al naso. Alle quattro dovrò fare l'aerosol e prendere sei pastiglie per il cuore. Ho tre stent coronarici e quasi ogni giorno mi fanno un elettrocardiogramma. Dicono che il mio cuore stia impazzendo. Ma sto benissimo, a parte i piedi amputati e un diabete che sembra sulle montagne russe. Eppure ho come la sensazione di essere partecipe di una follia. Come posso stare così bene e nello stesso tempo stare così male?. E infatti il medico ha deciso che sarò ospedalizzato a casa mia. Dite che sia questa la follia ?
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Così, per il ritorno,  indosso un pigiama inguardabile color senape antico, un paio di ciabatte in lana cotta comprate in Germania otto anni fa, e un maglione così grande che mi sento perso come un trullo all'Equatore. Mentre faccio la valigia trafelato, penso alla mia vita. A ciò che mi resta di essa. La monto e la smonto pezzo a pezzo. Progetto. Le idee non mi mancano.
Poi, sulla sedia a rotelle mi avvio verso il piano terra. E' mio figlio che spinge la carrozzina. E... nello stesso istante in cui entro in casa mia, nella mia "casa dolce casa"  mi assale una tristezza assoluta. Perchè?
Perchè adesso non avrò più il sorriso compassionevole delle operatrici a risvegliarmi, la mattina. Non ci saranno infermiere premurose che accorreranno a chiamata di campanello, e non vedrò i medici discutere della mia guarigione. E anche se mangerò una minestrina in brodo di cappone, il prosciutto fresco e saporito, e l'hamburger alla piastra, mi mancheranno quei muri sbiaditi illuminati dalla luce troppo intensa della finestra,  e quel tempo per pensare. Pensare di guarire. E progettare.

Ora a casa,  mi ci hanno mandato per morire.



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