Eutanasia

Sbucava dalla cerniera del borsone una palla di pelo color caramello.
Teneva una mano sulla spalla la mia paziente, per reggere la borsa che sembrava davvero pesante.
Quando ci siamo incontrate, eravamo sul corridoio del piano terra, vicino al centro prenotazioni dell'ospedale.
Non l'avevo riconosciuta subito con la bionda parrucca. Era tale e quale  ai suoi capelli. Ma Elena non li portava mai con le punte all'insù e questo mi mise il dubbio.
Stava andando a fare la chemioterapia, per la seconda volta. No, non la seconda seduta, ma per il secondo tumore, sbucato dal nulla dopo dieci anni. Lei, si beffeggiava di questa sventura, e la considerava un altro incidente di percorso. Quella macchiolina sul polmone doveva sparire prima o poi.
Camminava a passo frettoloso con i piedi in un paio di tacchi comodi, "zeppati", alti. Si lisciava di tanto in tanto i capelli nuovi. Sorrideva.
Mentre reggeva la borsa sulla spalla, con l'altra mano teneva la palla di pelo incastrata tra la cerniera e la tasca. Il cucciolo voleva uscire fuori e sbirciare attraverso la fessura. Probabilmente sentiva che giocherellavo con le chiavi, in tasca, mentre parlavo con lei. Il rumore lo incuriosiva.
Elena portava con sè il cagnolino dovunque andasse. Ormai era parte di lei, ma era ammalato anche lui, incredibilmente. Assumeva cortisone e antibiotici come lei. Una simbiosi che poteva sembrare assurda, eppure quella creatura infilata nella fodera, soffriva per un tumore intestinale. Il veterinario gli aveva proposto, ironia della sorte, una stomia, una derivazione, ma Elena aveva preferito di no. Lo avrebbe portato dal veterinario per la soppressione se lo avesse visto soffrire.
Lei intanto si sottoponeva a otto cicli di chemioterapia e il suo tumore avanzava impavido anzichè arrestarsi.
Quando non riusciva più a stare senza ossigeno e cercava l'aria anche sulle pareti, la inghiottiva più che poteva e supplicava il medico che le facesse una iniezione letale. Alle domande fitte, continue, riceveva risposte liquide, frammentate. Non poteva più soffrire così tanto. Al suo cucciolo non lo avrebbe permesso.
Da quando Bubi era morto, anche lei aveva smesso di lottare. Lui non si era nemmeno accorto che un lungo sonno gli fosse stato indotto. E se da una parte Elena fosse felice per questo, dall'altra, nulla riusciva a colmare quel vuoto.
Elena si chiedeva ogni giorno come mai in alcuni paesi esisteva l'eutanasia e in Italia no.
Se lo chiedeva tutte le sante sere, quando, con le lacrime agli occhi si aggrappava al bordo della sedia per riuscire a stare seduta, con la fame d'aria che la impauriva a morte. Era come se avesse due coltelli affilati tra le costole. Con il cinque per cento di funzionalità polmonare, respirava superficialmente a stento, non parlava per non consumare fiato. Si spegneva piano, come una candela di cera, con una sofferenza indescrivibile.  Ed io restavo lì, impotente, a vedere la crudeltà della natura farsi largo in un corpo esile e armonioso, e la violenza furiosa di un terremoto interiore che è ancora peggio del cancro, e  la cui causa è ...l'uomo stesso.
Non siamo in Svizzera purtroppo.


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