Infermieri troppo "pazienti"

(A tutela della privacy, i nomi sono di pura fantasia)

E' una serata di pioggia quella che mi accompagna per il turno di notte in questo vertiginoso ed elegante edificio detto ospedale. Al tramonto si intravede una fetta di luce con nuvole vagamente temporalesche.
Sembrano presagire una noia mortale, o, come se effettivamente annunciassero un diluvio, una nottata vivamente movimentata.
Arrivo in reparto con l'incessante suono dei campanelli. Alla stanza numero due, il familiare del paziente, attende impavido in corridoio, l'arrivo di una infermiera. Vuole che lo aiuti a cambiare le lenzuola e mostra una sciocca ed esagerata agitazione. Vedo la luce rossa del campanello anche nella stanza sei. E' finita la flebo e temono entri aria nella cannula. Sono i figli di una paziente che giungono trafelati in guardiola per sollecitare qualche infermiere a correre dalla loro mamma.
Nulla di grave, possono attendere che finiamo di passarci le consegne?. Sembrano alquanto impazienti. Si cerca sempre di rispondere con gentilezza, con una formula liberatoria e qualche frase chiarificatrice, ma spesso si viene fraintesi. Pensano che stiamo come in stalla..."a far filò".


Il turno di notte è coperto da soli due infermieri per sessanta posti letto. Quello di questa notte si presenta burrascoso e inquietante, come non avevo mai vissuto.
Suonano due campanelli contemporaneamente. E' il signore della stanza ventiquattro che ha dolore. Lascio le consegne e corro a vedere. In stanza sedici la ragazza sta vomitando e la madre, con apprensione e timidezza, mi chiede un telino, al mio passaggio in corridoio. Le aiuto. Non hanno chiamato nè suonato. Non vogliono disturbare, mi dicono, ma  bisogna accorrere in due. Chiamo la mia collega, già affaccendata con le terapie.
Vedo, dalla porta socchiusa della stanza otto, la testa di traverso del signor Cozzi. La curiosità ha sempre avuto il sopravvento nella mia vita, e in questo lavoro è essenziale. Entro con uno slancio spontaneo per chiedere se ha bisogno di aiuto. Noto una piega pronunciata del labbro e una palpebra semi chiusa. Il figlio dorme sulla poltrona accanto al letto. Il mio paziente non muove l'arto destro.  Ictus o Tia, non ho dubbi. Suono il campanello e avviso la collega che chiami il medico di guardia. Quasi inciampo nel comodino. Il rumore della paccottiglia che si trova sopra, sveglia il figlio del paziente di soprassalto, e si accorge immediatamente della gravità della situazione. Non sembra comprendere la mia presenza e comincia ad insultarmi per non essermi accorta prima della condizione del padre. Cerca di fare la voce grossa ma gli esce una specie di squittio. All'arrivo del medico, le lamentele sul mio conto da parte del familiare, sono a dir poco indescrivibili. Come si può arguire dall'espressione meditabonda del volto duro e mobile, il familiare sta per far esplodere una bomba. Il medico inarca leggermente il sopracciglio, incredulo dall'inappropriatezza del momento per lanciare questioni.
Fino a ieri la mia vita fluiva senza intralci ed io fluivo insieme a lei, per dirla in maniera enfatica. E oggi, mi ritrovo a dovermi difendere dall'accusa di colpa grave che non merito.
Torno in guardiola con il cuore di piombo, smarrito. Unisco le mani al viso con gli indici rivolti verso l'alto, e li appoggio sulla bocca arricciata. Cerco sentimenti e pensieri edificanti per la mia crollata autostima. Mi siedo sulla sedia e appoggio la testa sul tavolo. Voglio trasformare il mio spazio interiore in un'ampia pianura vuota, senza tutta quella erbaccia di pregiudizi che ne impedisce la vista. Piango disperato.
Ci sono pazienti e parenti che danno un valore inestimabile alla nostra professione, e altri che pensano che siamo servi della gleba, destinati solamente alla "puntura sul gluteo", a saper "mettere un ago sul braccio" o ad "appendere due flebo". Per non parlare di coloro che pretendono il servilismo puro, quello che neanche lontanamente si avvicina all'assistenza infermieristica. Subiamo le incazzature dei familiari che non trovano la poltrona su cui dormire, che suonano il campanello per farci aprire le persiane o farci accendere la tv portatile. Mi ritrovo spesso a chiudere i sacchi della spazzatura e, pazienza se si tratta dello scatolone dei rifiuti speciali e pericolosi. Molte volte ci chiamano nelle stanze per svuotare il cestino dalle cartacce. Stanze trasformate in camere d'albergo con tanto di appendiabiti in bella vista. Strapiene di cozzaglia che neanche ai mercatini si vede.
Nella mia mente si affastellano mille interrogativi. L'aria sembra incastrata e non entra nei polmoni. Vorrei andare via. Capire se quello che voglio è questo lavoro.
Suona l'ennesimo campanello. E' la signora anziana dell'ultima stanza. Accorro farfugliando tra i colpi di tosse. Si sente triste ed ha freddo. Cerco di parlare un pò con lei, capire se vuole una coperta, un tè caldo, se ha la febbre. La rassicuro. E il mio cuore si libera da questa tremenda pesantezza angosciosa. Questo... è il mio lavoro. Ed io so quello che valgo.


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