La fotografia mi ha salvato la vita

Da una storia realmente accaduta...

Reggo tra le mani umide una foto grande quanto una cartolina. La osservo da ogni lato cercandone il senso. La alzo verso la luce, la scruto attentamente, la giro, la appoggio, la appendo.
Il mio paziente me l'ha appena consegnata, in una busta giallo ocra, con tanto di sigillo in ceralacca rosso mattone. 
"Per Fanni. Scrivi la mia storia ti prego" . La frase primeggia a tergo. E' scritta con una penna stilografica nera, in corsivo antico, con i riccioli sulle vocali e la "F" barocca. 
Lui sa quanto io sia attenta alle emozioni che si celano dietro ad espressioni rubate e improvvise. Sotto a parole singhiozzate o strozzate. Sopra ad un cuore sofferente. E tra i particolari di un'immagine. Ma soprattutto lui sa, che con la fotografia, ha ricominciato a vivere, immortalando la vita in un click, in un fotogramma dinamico o in una sola unica immagine mai statica, come questa, che mi lascia basita. E me lo vuole dire. Vuole che il mondo lo sappia.

Avevo quattro anni quando mio padre mi regalò una polaroid. Ero convinto che fosse mia, in realtà era un regalo di mamma, per lui, ma non esitò mai a farmela usare.  
Fotografavo tutto. Un sassolino incastrato nella suola della scarpa, la ragnatela sotto al tavolo in cucina,  una mosca sulla cacca di cane. Fotografavo una candela accesa ma quasi consunta, una scodella di latta rotta e arrugginita o il verme nella mela. Non mi interessavano i visi nè i sorrisi, le foto in posa nè i paesaggi. 
Appendevo le foto in fila, nella mia cameretta e costruivo la mia storia felice, come fotogrammi nella pellicola di un film. Chissà cosa vede un ragno dall'angolo del soffitto?. Ecco, prendevo la scala e salivo su con lui, a fotografare in giù, verso il basso, attraverso la sua ragnatela, come se fossi io il ragno. 
Quando mi ammalavo, d'inverno, me ne stavo a letto a guardare le mie foto. Mi davano una forza incredibile. Mi facevano guarire. Come?. Semplicemente perchè rappresentavano  la vita che incessantemente scorreva ed io, nel mio materasso, me la stavo perdendo. Dovevo guarire in fretta per scattare altre foto, tantissime foto. Una infinità di foto.
Poi un giorno, è arrivato lui, il cancro. Un po' in anticipo, secondo i miei calcolati piani, ad affliggere la mia aria melodrammatica. Il mio film prevedeva la malattia durante la vecchiaia e non a quarant'anni. Quel giorno, era una sera buia senza luna, ho emesso un grido selvaggio e sguaiato, culminato in una specie di barrito. Un urlo di quelli che squarciano la gelida aria notturna, per poi vedere però, in fondo, una luce tenue nella mia desolata serata.
Ho sopportato così l'intervento chirurgico, la radioterapia e, la chemioterapia, e non sono ancora morto. Ho continuato a scattare, giorno dopo giorno. Click dopo click. Una infinità di foto.
Ho immortalato la goccia della flebo dall'alto e dal basso, il bordo smerlato del lenzuolo nel letto, la garza inzuppata e arrotolata sulla ferita, una foglia rinsecchita con una unica gemma, verdissima. E infine,  la terra franata sotto ai piedi. Mi sono finto morto, come sotterrato in un campo sperduto, reggevo la macchinetta tra le mani infangate. Ho puntato la polaroid a tempo e mi sono fotografato. Ed è stato là che ho avuto paura. Tanta paura. Era la prima volta che fotografavo la morte. 
Ma da quel giorno, quella foto mi ha salvato la vita. 
Io sono vivo. Sono guarito. Guarito grazie alla fotografia.   


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