Affinità elettive

E' buio nella stanza 22.
Il mio paziente sta dormendo da molte ore e non sente la porta aprirsi. Entro adagio, ma gli zoccoli in gomma stridono al primo passo sul pavimento ancora umido. La signora delle pulizie deve essere appena passata. Un odore di detergente e di pulito aleggia nella stanza.
Reggo sotto al braccio l'agenda azzurra e alcuni fogli da lasciare ad ogni paziente prima della dimissione. Il mio paziente sente il fruscio dei fogli di carta e si gira lentamente dalla mia parte sbarrando gli occhi. E' felice di vedermi. Lo capisco quando allunga la mano destra verso la mia sinistra, come per prendermi la mano, non in segno di stretta formale ma di carineria affettuosa. E' fredda la sua mano, come i piedi. Gli chiedo se vuole una coperta di lana o qualcosa di caldo da bere e mi dice semplicemente grazie. Un grazie educato e umile, silenzioso e pacato. Un grazie morbido che esprime tutto il suo bisogno di essere assistito e curato.
Mi siedo accanto al suo letto, in silenzio. Non posso fare a meno di notare il libro che giace nascosto sul ripiano del comodino, dietro al pacchetto di salviette. La nostra, è proprio una affinità elettiva, penso tra me e me, come quelle di Goethe e dei Dolori del giovane Werther. E' questo il libro che sta leggendo. Un segnalibro in cuoio esce dal libro a quasi  venti pagine dalla fine.
I suoi occhi mi fissano inquieti. Sembrano fibrillare velocemente e instancabilmente. Sorrido. Un sorriso lieve e senza peso, a labbra sottili, per rispetto del suo dolore.
Lui, nervosamente, arrotola le maniche del pigiama blu, accuratamente, e chiude l'ultimo bottoncino sul collo. Il mio paziente è elegante anche in un letto di ospedale. Si sposta la frangia di capelli dividendola a metà, dietro le orecchie. Indossa un paio di baffi rubati agli anni settanta e un tenue profumo di dopobarba mi inebria ad ogni movimento della testa. La sua vita non può essere appesa ad un filo, non è possibile.
Ha l'addome gonfio come un pallone oggi. Ascitico. Gli occhi verdissimi sono circondati da un alone giallo, come la pelle del viso. Si lamenta di un prurito diffuso, dai palmi delle mani al collo e alle gambe. Poi, rompe un silenzio pesante e afoso con una frase: "Ho intenzione di aprire un ristorante". Ho come un sussulto nella sedia e resto ammutolita dalla sua forza di volontà. "Appena mi rimetto chiamerò un'impresa per alcuni lavoretti". Basita. Perchè mentre lui vive in una scatola oscura, ignaro di ciò che realmente accade fuori, la sua vita si sta consumando in questo letto, con uno stupido cancro. Decido di chiaccherare con lui, dei suoi progetti e dei suoi piani. Un'ora trascorre in fretta e non me ne accorgo. Mi propone anche un disegno, uno schizzo del suo sogno meraviglioso. Non conoscevo la natura creativa e artistica del mio paziente.
Poi, d'un tratto, mi riprende la mano, la sinistra, quella in cui porto un anello con uno smeraldo verde. "Verde è speranza..." aggiunge, mentre il mio sguardo si fa cupo e triste. Mi sento arenata in uno scoglio dove mi è impedito ogni tentativo di compiere l'ultimo salvataggio.
Non so se la sua sia davvero consapevolezza. Io lo saluto tenendogli quella mano gialla e secca, fredda, con una sola gelida verità.  Quella dell'ineffabile immobilità della sua vita. Tra i due, essere l'unica a saperlo mi carica di un peso assurdo.
Incrocio le dita delle mie mani e stringo forte la mia pietra verde, quasi un amuleto per lui, mentre esco dalla stanza piano, irradiando affinità elettive tra il disastro della malattia. Perchè il sopraggiungere della morte avverrà presto, prestissimo, tra poche, pochissime settimane.  






 "Sto male ovunque e ovunque sto bene: non desidero nulla, non chiedo nulla. Sarebbe meglio che me ne andassi. "

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